Il viaggio di Agata Violo

 

Ho sempre odiato gli spazi chiusi. Eppure eccomi qua: non devo neanche sollevare la mano, le pareti sono così vicine che sento trapelare la loro gelida indifferenza.

Penso nel buio rarefatto. E’ incredibile come io alla fine riesca sempre a fare ciò che non voglio. Insomma, ci sono persone che agiscono per sé senza preoccuparsi delle conseguenze, o alcuni che si sacrificano per un amico o per una qualche ispirazione superiore. Io no. Nelle difficoltà mi ci ritrovo e basta. Nessuno mi costringe e, in tutta sincerità, non è che mi importi molto degli altri. O di me, Marco Conti.

Mi scuote un brivido, strano, improvviso; non capisco se mi venga da dentro o da fuori. Bah. Riprendo a gattonare.

Cioè, io dico: almeno chi, credendo d’essere d’aiuto, finisce invece per ottenere l’opposto, ha uno scopo alto, un ideale. Io, semplicemente, sono una tale catastrofe umana che non sono neanche capace di essere un egocentrico serio. Anzi, peggio, ci rimetto sempre! Sono quello sempre disponibile, quello pronto a rinunciare al sonno e rimanere per ore in chiamata, quello che di sicuro vuole seguire le orme del padre, l’orgoglio di famiglia, quello che se ne va stordito dopo aver ascoltato per ore il vecchietto della lavanderia senza avere il coraggio di uscire, quello che porta le borse su per le scale alla signora del piano di sotto quando vorrebbe mollare tutto e bruciare nella corsa ogni gradino, alle spalle solo la cenere di mille e mille istanti sprecati ed irrimediabilmente perduti.

Quello che guarda alle vite perfette degli altri, ma che ha le giornate così piene di niente che non ha mai tempo per fermarsi e dire: basta!

Il clangore della mia mano che, nel momento di foga, ho sbattuto sul pavimento metallico mi riporta alla realtà. Ecco, guardate. Prendiamo oggi: doveva essere l’ora tanto aspettata del mio riscatto, un momento in cui fare finalmente qualcosa per me e soltanto per me, l’occasione per smettere di nascondermi e ottenere che tutti, tutti mi potessero veramente vedere. Invece sto strisciando in un condotto di areazione pericolante e mi sento come un verme che pian piano secca, esposto al calore crescente.

Comincia una salita. In effetti, noto con terrore, la temperatura sta aumentando sul serio.

Una, singola goccia di sudore rimbomba con l’eco di un albero che cade in una foresta deserta. Per un attimo la vedo scintillante nel nulla. Gli occhi cercano febbricitanti qualcosa, una speranza di sollievo, un’indizio, una parte di me, ma tutto ciò che vedo riflesso nelle mie pupille è l’ansia disperata che mi attanaglia la gola.

 

Biagio si sveglia di soprassalto, sulla fronte il freddo del finestrino. Osserva la scia della goccia che scivola lenta ma decisa sulla superficie trasparente, così vicina eppure così lontana nella sua placida calma. La vibrazione lo scuote di nuovo fino alle ossa. Ancora una scossa ed è pronto a scatenare il suo epicentro interno. Da fuori la mano bussa ancora. Il vetro si abbassa giusto di poco, comodo ponte levatoio davanti a una trincea di ostilità mattutina. L’uomo si china a parlargli e dall’ombrello uno schizzo d’acqua gli arriva in faccia. Non è proprio giornata. Che seccatura il mondo, così scontato nella sua monotonia. Le fermate dei pullman. I programmi televisivi. Intere giornate. Tutto è controllato, tutto è organizzato in un ordine che insieme affascina e spaventa, ma soprattutto lo disgusta.

Osserva rapito le labbra del vigile che si aprono e si chiudono, si spostano, comunicano, si trasformano inferocite, regolari. Annuisce distrattamente.

E’ difficile vivere disprezzando i principi della società. Impossibile farlo apertamente. Ha imparato a indossare la maschera dell’abitudine.

Mantenere in ogni occasione un’espressione neutra. Soprattutto cordiale. Disprezzare la noia del mondo per dimenticare quella dentro di sé.

Ogni giorno vede il sole sorgere. Uguale. Esce.Va al lavoro, sempre lo stesso negozio di trent’anni fa. Il traffico lo ingloba nella sua morsa opprimente e spietata. Come al solito. Guarda l’ora senza vederla, in fondo che senso ha correre in una vita che non ha un traguardo da superare. Una gara senza percorso e senza avversari, ma comunque senza pausa. Come un incubo senza fine in fuga dai non più. La vana attesa dei non ancora.

In ogni caso la manica si sposta scoprendo l’orologio, come al ….. LE UNDICI E MEZZA?! L’acceleratore è braccato dalla forza dirompente dell’adrenalina. Il suo sguardo è già lontano, forse qualcuno sta gridando non so quale inutilità sul dormire o sul divieto di sosta. Banale. Per fortuna la macchina sfreccia e, per una volta, sa dove andare.

 

Avete presente quelle sensazioni speciali, quelle che non puoi spiegare ma che dentro di te sono chiare e solide, un faro su un’isola di scogli battuti dalle onde. Quelle che arrivano e basta, senza avvisare, ma che in fondo ti aspetti.

Non so come sia nata.

Da tempo sentivo come un pensiero in attesa, l’angoscioso fastidio di un sogno non ricordato. Una parola smarrita sulla punta della lingua, che non conosci ma ti appartiene. Una nota incastrata in uno strumento che all’improvviso qualcuno ha suonato ed è scappata via, libera.

Rubare. Un trofeo. Di valore. Per di più a mio padre. Lo tiene rinchiuso in una teca nel suo negozio, amato più di me, irraggiungibile come lui.

Certo, sono consapevole che essere ladro a sedici anni non è il massimo delle aspirazioni, ma è la mia scelta. La MIA idea.

L’unico modo per “contare”, non solo nel cognome che ho ricevuto; per fargli sentire tutto quel vuoto che mi ha dato.

Perché gli rimanga un po’ di spazio per ascoltare e magari far entrare le parole, che invece di solito esondano dalla voragine mai stanca della sua bocca.

Ero così eccitato, non potete capire.

No, io non posso capire. Continuo a sbattere le ciglia, mi gira la testa. Con chi sto parlando? Mi sento così pesante che vorrei solo sdraiarmi e dormire, qui al caldo, per sempre. Resisto e vado avanti. Ovvio, se sapessi qual è l’avanti. Tutto in questo maledetto tubo sfuma in una nebbiolina opprimente.

 

Quando diventi padre, continuano a ripetere che sarà l’impegno più gravoso che potresti immaginare.Ti mettono in guardia. Ti chiedono se sei pronto. Ti dicono di seguire il cuore. Lui ha dovuto provarlo sulla sua pelle per capire che questo istinto non ce l’aveva. O forse non voleva averlo.

La testa ciondola di nuovo, deve fare attenzione.

Il pensiero si perde indietro negli anni, che in qualche modo sono passati, anche questi tutti in un ordine perfetto. Una fila dell’asilo, un bimbo dopo l’altro, come suo figlio non è più da tempo. Scontati, noiosi, proprio uguali a lui.

Le palpebre cedono, un unico secondo, non si fa male nessuno.

Invece un clacson si sveglia improvviso. Sobbalza. Chi può essere così ingenuo da suonare nell’equilibrio fragile di questa coda infinita? Solo un inutile perditempo. Un impotente reietto di questa giungla umana. Continua anche il sadico! Deve dirgli la sua. Si tira su, e il rumore si interrompe. Era il SUO clacson!

Guarda fuori con imbarazzo, negli occhi il primo barlume di una consapevolezza nuova.

 

E’ finita. Il mio corpo ricade molle sulla superficie bollente.

Sembra di stare sott’acqua, è tutto così morbido, così ovattato, rilassante…

Sento pure i pesci che mi scivolano accanto veloci, galleggiano impalpabili nell’aria.

Alzo il braccio e qualcosa mi sfiora le dita. Chiudo gli occhi e nel buio mi godo il momento, delicato e intenso. Anche io sto volando ora, una nuvola mi circonda come nebbia compatta e uniforme, vorrei toccarla afferrarla assaggiarla ma mi limito a salire salire e salire, mi allungo e mi sembra di espandermi in questo istante di tempo infinito, ora non più sprecato ma unicamente e piacevolmente presente.

Ripenso in confronto al vuoto di ogni mio giorno.

Un attimo.

Frugo nei ricordi alla ricerca di quella vita insipida che credevo di avere, ma trovo solo una serie infinita di momenti esattamente identici a questo. Come minuscole caramelle, gustose nella loro semplicità.

Mi blocco stupito a mezz’aria. Dov’ero io?

Adesso più che mai vorrei condividere tutto questo, con me stesso, con tutti.

Cerco di tornare indietro e la felicità sprofonda in un abisso di tenebre e paura. La corrente mi spinge avanti, e mi aggrappo alla speranza che qualcuno mi ricordi, mi chiami, mi senta, di non essermi proprio ora inutilmente e senza rimedio perduto.

 

Fissa incantato un’ape che si è posata immobile. Sembra dipinta nel cielo, in perfetta armonia, anche se su un banale specchietto.

Lo sconvolge come a volte basti così poco per ribaltare l’opinione più radicata, che credevi indiscutibile. Di più, la tua ragione di vita.

E’ stato troppo facile dare la colpa agli altri, senza capire che il problema era proprio lui stesso. Odiare la monotonia ma immergersi in essa.

Davvero non sa come abbia fatto a ingannarsi così tanto. E così a lungo. Ci vuole un niente a sbagliare, un miracolo per rendersi conto. Lui ringrazia il clacson.

 

“Ah, Marco”.

Qualcosa si muove sotto le palpebre.

“Sì, è da un po’ che non lo vedo”.

Metto a fuoco il soffitto metallico. Che mal di testa.

Mi sembra di essere uscito da un brutto sogno, uno di quelli che non ti ricordi ma che ti lsciano sudato e con una sensazione di amaro nella bocca e nei pensieri.

Provo a girarmi di lato, ma una fitta dolorosa si propaga in tutto il corpo.

Il dubbio si insinua subdolo nella mia mente. E se davvero…

“Quel Marco!”

Sono io? Almeno credo. Ne sono sicuro?

Mi guardo le mani e sono di fronte a me, vive.

No, non sono sicuro, ma quello che so è che sono qua.

“Verrà? Lo spero.”

Non riesco a spiegarmela, ma sono certo che anche questa voce è reale.

Mi sforzo di tirarmi su, devo farcela, prima che svanisca. Per quanto mi inquieti, è l’unico appiglio che ho in questo vuoto assoluto.

Io esisto.

Faccio leva su un braccio.

Davvero.

Anche la gamba.

E mi piace.

Mi sono alzato.

E non voglio smettere di farlo.

 

Le ali dell’insetto fremono al vento e scintillano in incredibili disegni geometrici attraversate dal sole.

Ora vede che il mondo è meraviglioso proprio nel suo scorrere regolare e lui, sciocco, ha scelto di contrastarlo senza motivo.

Lui merita il suo disprezzo, per tutti quei rimpianti inutili, tutto quello che aveva e non ha mai voluto vedere.

Per CHI non ha mai saputo apprezzare.

La macchina riparte e l’ape vola via.

Ora non sa che fare.

 

Ricomincio ad avanzare nel condotto, a fatica, gattonando, inseguo il suono, striscio, sento di nuovo la voce.

Ora lontana, ora vicina, mi dà la forza per proseguire.

No! E’ sparita. Mi guardo attorno disperato, le lacrime mi bruciano gli occhi. Mi trascino ancora, avanti, non può finire così.

Eccola! All’improvviso. Dov’è? Di nuovo! Sotto di me. Sposto una gamba; uno spiraglio di luce mi trafigge gli occhi.

 

Inchioda. La via è bloccata. Si volta e guarda la fila di auto dietro di sé, ma gli sembrano diverse da prima.

Vede gli uomini tutti uguali, non impotenti ma succubi, inanimati; si sente improvvisamente grato per questa nuova libertà di scegliere, di pensare .

Gli occhi gli brillano, riparte di colpo, sgommando, i pedali impazziti; di fianco osserva i volti che per un attimo sfrecciano attoniti.

Un sorriso beffardo gli increspa le labbra. “Svegliatevi, ci vuole tanto a cambiare strada?”

 

Avvicino il volto alla fessura. Sono accecato, ma sento ancora la voce, proprio lì in basso.

“Ah, Marco Marco” dice un ombra ancora indistinta sotto di me scuotendo la testa “un bravo ragazzo, davvero! Certo, mai una volta che venga a ritirare i vestiti in tempo, bisogna dire, ma a uno come me, che nessuno più sopporta, ogni chiacchierata con lui migliora la giornata. Ah, glie l’avessi mai detto! Ah, venisse! Ah, Marco! “.

Non so se ridere o piangere.

Mi esce una specie di grugnito strozzato, un misto tra un’anatra e un gatto a cui hai pestato la coda. Il vecchietto della lavanderia smette di parlare e alza lo sguardo. Mi ha sentito. Cerco di trattenermi.

Ora vedo la follia di tutto ciò.

Non c’era nessuna voce speciale che mi guidava di proposito . Solo un viaggio contorto che credevo di fare per me, poi per mio padre, ma che in realtà mi ha portato a scoprire quanto vale ciò che faccio. Anche se nessuno mi vede.

Quanto valgo io.

Quanto tengo a me.

Tanto mi basta.

Beh però, pensandoci bene, adesso che sono qui, vale la pena di portarlo a termine, no? Tanto devo andare proprio qui a fianco.

Scendo lentamente nel buio del negozio. Per fortuna è ancora tutto chiuso.

Bene. Eccomi qua. Mi guardo attorno soddisfatto, tra le ombre familiari.

Sì, però ora? Non ha più senso fare ciò per cui sono partito, certo, ma non ne ha neanche andarsene senza prendere nulla. O forse, senza lasciare nulla. Mi illumino all’idea. Avanzo eccitato verso il bancone. Afferro la penna e il foglio, sembrano qua apposta per me. Per mettere finalmente per iscritto me stesso.

Fondere parole e sogni in un nuovo trofeo da conquistare.

 

E’ arrivato, la macchina si ferma di fronte al negozio.

Ripensa alla frase che suo figlio ultimamente ripete spesso e che ora gli sfugge.

Non l’ha mai ascoltata davvero, ma è sicuro che adesso capirebbe.

Com’è che era…

 

L’inchiostro traccia veloce le prime righe.

 

“La verità è nel partire, se restare per te è diventato una bugia…”

“…una bugia, un inganno, la costruzione di un muro che ti separa dal mondo…”

“…ma ancora di più è nel tornare…”

“…tornare e rendersi conto che, in realtà, ciò che ora è tuo…”

“…lo è sempre stato”.