Il Viaggio di Beatrice Lazarciuc

“Una macchina nera sfreccia veloce lungo la strada. È pieno pomeriggio, una giornata di sole, una di quelle in cui nulla di grave può accadere. Eppure, quando meno te lo aspetti, qualcosa ti colpisce. La macchina sbanda e, per evitare di tamponare quella davanti, cerca di frenare, ma si ribalta. Il conducente è svenuto. “

Tutto questo succede anche nella vita. La vita non è affatto perfetta, la mia tanto meno. Mia madre era ed è ossessionata dal lavoro, mio padre non riesce a controllarsi, ha poca pazienza con me e con mia sorella, che a diciassette anni e ha deciso di scappare di casa. Non gliene faccio una colpa, dopotutto non abbiamo mai legato tanto e personalmente non ho bei ricordi di lei che mi facciano dire “era proprio una gran sorella”. Quando se n’è andata nulla è cambiato, se non il fatto che i miei hanno deciso di divorziare. Cose che capitano.

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Mi trovavo in piedi nella mia stanza. Guardai la porta, era semi chiusa, lasciava penetrare un filo di luce, cosa strana dato che io la chiudevo sempre. Mi avvicinai lentamente e appoggiai la mano sulla maniglia gelida, la aprii del tutto. La luce del sole mi colpì in pieno volto tanto che mi dovetti coprire il viso con il braccio. Le urla di gioia dei bambini riempivano di allegria il parco.
Un urlo molto più potente degli altri attirò la mia attenzione: una bambina dalla pelle ambrata sui dieci anni con capelli scuri e occhi chiari stava scambiando delle figurine con altre bambine della sua età, il paesaggio si sfocò e io concentrai la mia attenzione su di loro:
<< Oh, finalmente! L’ultima figurina del mio album! Ora posso vincere il premio! >> Un bambino molto più piccolo, di tre o quattro anni appena, che non riuscivo a vedere in faccia si avvicinò barcollando e gridò:
<< Nana! >>, afferrò con una velocità inaudita la figurina dalla mano della bambina, ed ancora prima che lei potesse riprendersela lui la strappò ridendo, come se per lui fosse un gioco.
<< Stupido! Guarda cos’hai fatto! Se non fossi mio fratello ti darei tante botte! >> esclamò lei aggressivamente. Qualcosa dentro di me scattò.
La riconobbi.
Nadia spinse forte il bambino e lo fece cadere a terra, e quello scoppiò a piangere con tale disperazione che richiamò l’attenzione di una signora che, poco lontano, stava telefonando e che forse era la madre dei due.
<< Bambini! Smettetela! >> tuonò la donna senza staccarsi dal cellulare. Il bambino protese le mani in avanti, nella speranza che la bambina lo prendesse in braccio, la chiamò, ma lei gli voltò le spalle.
<< Cresci, e smettila di frignare, scemo! >> disse lei freddamente.

Il paesaggio si incupì improvvisamente intorno a me, e poi calò il buio e una voce calda mi bisbigliò all’orecchio :

<< Guarda! >>

Aprii gli occhi, non mi ero accorto di averli chiusi. Mi trovavo in un soggiorno con un bellissimo divano beije che separava me e il bimbo di prima. Era cresciuto, ora aveva circa cinque anni. Era intento a giocare.
Sorrisi, la vita a quell’ età è perfetta, non c’è bisogno di preoccuparsi di niente, se non di incastrare bene i lego e di non perdere i giochi.
Nadia arrivò in soggiorno salterellando, aveva appena finito i compiti, sul suo viso aveva impresso quel sorriso compiaciuto che faceva sempre quando aveva finito di fare qualcosa che non le piaceva. Era cresciuta anche lei, di un po’ ma manteneva sempre quell’ espressione infantile.
La ragazzina guardò il bambino sorridendo, fece per avvicinarsi, proprio quando la porta del soggiorno si aprì e una donna al telefono entrò buttando il mazzo di chiavi in un cestino.
<< Voglio fare lo straordinario domani. >> esclamò piena di rabbia. Il bambino si voltò e guardò la madre e finalmente io vidi il suo viso. Era il mio: pelle ambrata, occhi scuri e una piccola cicatrice sulla guancia.
<< Mamma! >> urlò il bambino alzandosi in piedi.
<< Ciao Nolan. Papà è arrivato? >> domandò quella che era mia madre posando il telefono sul ripiano e guardando mia sorella che le rispose subito: <<Si, è andato in cantina. Posso chiederti una cosa? La mia migliore amica fa la festa del suo compleanno a casa…posso andarci, per favore? >> domandò Nadia avvicinandosi alla madre.
<< No. >> rispose la donna secca.
<< Ma mamma…>> protestò lei. << Ti prego…>>
<< Ti ho detto di no! Non voglio discuterne più. Devo tornare a lavoro e papà deve andare in città. Devi badare a Nolan. Ora prendilo e andate in camera, non vi voglio più vedere. >> ordinò. Mia sorella si avvicinò alla versione di me da piccolo e mi prese in braccio nonostante le proteste.
Mio padre entrò deciso, non salutò e puntò un dito contro la mamma. << Sono stufo di questa situazione! >> urlò.
Nadia stava andando in camera con il piccolo sulle sue spalle, che però era intento a guardare la scena.
Il papà alzò una mano e colpì la mamma in pieno sul viso, il bambino, scoppiò a piangere urlò il nome della madre, ma Nadia non lo lasciò andare, lui scalciò forte, colpendola… ma lei non lo lasciò e lo portò via.
Dentro di me scattò qualcosa, non mi ricordavo per niente quella scena e neanche quella prima, lì ero molto più piccolo, eppure dei ricordi di quando avevo cinque anni li avevo… ma non quello, non quella brutalità, quasi come se il mio cervello tanto spaventato avesse cancellato tutto… però perché ricordarla in quel momento?

Senza comando, le mie gambe presero a camminare, dirigendosi di sopra dove era andata Nadia; le urla dei miei genitori diventarono sempre più lontane ed incomprensibili. Protesi una mano ed aprii la porta di quella che era camera mia e di mia sorella all’epoca.
Era decorata in modo diverso, i muri erano verdognoli con qualche poster appesi, i due letti erano vicini e la cuccia di Muffin, il mio cane, e le sue foto non c’erano. Nadia stava abbracciando il me bambino, forte, e piangeva insieme a lui.
<< Se a volte ero cattiva con te era perché volevo che ti abituassi a questa situazione…Sta tranquillo, ci sono io qui con te, non ti lascio da solo. >>
<< No! Io voglio la mamma! Non voglio te! >> urlavo di rimando cercando di allontanarmi da lei, ma con scarso successo. Riuscivo a percepire lievemente il calore delle piccole braccia di mia sorella intorno a me. Anche se non mi stava abbracciando, ero come un fantasma immerso nel mio passato, nei ricordi di cui non avevo memoria.
Ed ecco che qualcosa cambiò. Di nuovo fu buio e poi la camera riapparve ma disordinata, Nadia non era più lì e neanche il me bambino.
Fuori pioveva, la porta dietro di me era socchiusa, e io la aprii. Ero ancora in casa mia, questa volta c’era un’aria un po’ più calda e leggera di prima, delle decorazioni erano appese al muro, erano verdi e blu con la scritta “Tanti Auguri”. Sorrisi, era il giorno del mio sesto compleanno, il giorno in cui mi avevano regalato Muffin, il mio Golden Retriver.
Trovai mia madre come al solito al telefono in cucina, non è mai cambiata. Mia sorella non c’era, il me bambino era sul divano a guardare la televisione. La torta di compleanno era mezza mangiucchiata sul tavolo, ed ecco il campanello suonare e mia sorella entrare con una scatola aperta.
<< Nolan! Ho una sorpresa per te! >> esclamò gioiosa. Il me bambino si alzò rapido in piedi sul divano pieno di entusiasmo, quando lei si avvicinò e posò la scatola sul divano.
<< Buon Compleanno fratellino, questo è il mio regalo! >> dalla scatola sbucò la testa di un cagnolino con la lingua di fuori.
<< Oddio si! Si! Si! >> esclamai felice. Sorrisi, non mi ricordavo che me lo avesse regalato Nadia.
<< Nolan, ti presento Muffin >> era felicissima proprio come me. Avrei voluto abbracciarla, ma non potevo, ero un fantasma e tutto ciò che potevo fare era guardare.

<< Abbracciala, ti prego! >> bisbigliai sperando che il me bambino lo facesse, ma niente. Lui invece si mise ad accarezzare il cane. Riuscivo a scorgere il desiderio negli occhi di mia sorella, il desiderio di essere abbracciata, di essere amata da un fratello che non le aveva mai mostrato affetto in alcun modo, e quelle poche volte che l’aveva fatto non era mai stato abbastanza.

L’ara si fece più pesante, la stanza si sfocò fui costretto a strizzare gli occhi più volte e quando li riaprii sentii i miei piedi che sprofondavano nel terreno. Ero fuori, all’aperto, nel giardino di quella che era ed è ancora casa nostra.
Pioveva appena, e le gocce non mi sfioravano. La via era percorsa dalle macchine che sfrecciavano avanti e indietro. Una in particolare si fermò nel vialetto di casa mia e poco dopo vidi Nadia uscire dalla porta anteriore. La vidi chinarsi e mormorare qualcosa alla persona al volante. Mi ricordavo poco del primo fidanzato di mia sorella, ma lo riconobbi comunque appena lo vidi parcheggiare e scendere dall’auto. Li osservai prendersi per mano ed entrare in casa. Li seguii fino al soggiorno dove si bloccarono. Nadia, che all’epoca aveva sedici anni, chiamò i nostri genitori e poco dopo, sull’uscio che portava alla cucina, apparvero mia madre e quello che dovevo essere stato io. Si sentirono dei passi e poco dopo arrivò anche mio padre, il quale non si era ancora accorto del ragazzo e, senza neanche aspettare di essere entrato nel salotto, urlò a Nadia:
<< Ti pare il caso di arrivare a quest’ora? >> appena però vide lo sconosciuto si girò verso Nadia e con sguardo furente le chiese:
<< Chi è questo qui? >>
Nadia, che fino a poco prima aveva tenuto sempre lo sguardo a terra, alzò la testa e puntando gli occhi in quelli di mio padre disse:
<< Ti presento Lucas, il mio fidanza…>> non fece in tempo a finire la frase che papà si era avvicinato a lei con due grosse falcate e senza preavviso le aveva tirato uno schiaffo tanto forte da farla quasi cadere. Gelai. Non ricordavo neanche questo, ma ora che l’avevo visto ero pervaso dalla rabbia. Volevo ammazzare mio padre per quello che aveva appena fatto a mia sorella e contemporaneamente volevo correre da lei per abbracciarla, per consolarla, per farle sapere che io ero dalla sua parte. Ma non potevo, ero impotente e senza accorgermene una lacrima scese sul mio viso. Osservai orripilato mio padre avanzare e tirare un altro ceffone a mia sorella, meno forte del primo. Ne sarebbe arrivato di certo un terzo se il suo ragazzo non si fosse messo in mezzo. Purtroppo il risultato fu che mio padre si arrabbiò ancora di più, ma la mamma, che fino ad allora era rimasta immobile, si mise davanti a lui e lo calmò. Ci mise un po’, ma quando ci riuscì osservai mio padre guardarsi intorno spaesato, come se quello non fosse stato lui, ma la sua parte peggiore. Mormorò uno “scusa” ed uscì dalla stanza.
Nonostante tutto mi buttai su mia sorella per abbracciarla, ma il risultato fu quello di passarle attraverso. Mi guardai intorno e mi accorsi che il piccolo me le aveva appena girato le spalle e se n’era andato via a giocare. Lei era rimasta sola a piangere, perché il fidanzato aveva deciso di andare via anche lui. Piangeva a dirotto Nadia, e io non potevo farci niente. La vista iniziò a farmi talmente male che chiusi gli occhi.

Suoni come urla, pianti, sberle, cose che si infrangevano giungevano alle mie orecchie, non volevo più guardare altro, ero stufo di vedere come la mia famiglia si rovinava pian piano anche se sapevo perfettamente quale sarebbe stato l’ultimo passo da affrontare. Me lo ricordavo. Quello era il giorno in cui non avevo provato nulla di differente, soprattutto nei confronti di mia sorella, non le ho mai voluto bene quanto avrei dovuto.
<< Nolan! >> la voce forte di Nadia che mi cercava mi giunse alle orecchie, aprii gli occhi.
Avevo dieci anni, il me bambino era alla scrivania che faceva i compiti di inglese, Muffin era coricato ai miei piedi, il cane alzò la testa e mi guardò, come se percepisse la presenza del me fantasma. Sorrisi e lo salutai con una mano. Prese a scodinzolare, allora mi chinai senza neanche pensarci, ero pronto a coglierlo tra le mie braccia, ma lui non stava scodinzolando a me, ma alla persona che era appena entrata nella stanza. Nadia sbatté la porta, segno sella sua ennesima litigata con mamma e papà.
<< Puoi fare più piano?! >> Urlò il giovane me senza distogliere lo sguardo dai libri. Nadia si avvicinò al letto con le mani premute sulle tempie. Mi avvicinai lentamente e la osservai: aveva gli occhi lucidi e gonfi, il suo volto era tutto rosso.
<< Scusami Nolan…>> borbottò con voce ferma. Più la guadavo più il senso di colpa mi divorava, perché non mi ero accorto che stesse piangendo, perché facevo così lo scontroso quando lei aveva bisogno di me, di affetto, di qualcuno che le stesse accanto, quando i nostri genitori non erano presenti.
<< Nolan. >> iniziò lei asciugandosi gli occhi e prendendo uno zainetto da sotto il letto. << Devi farmi un favore. Io devo andare dal mio ragazzo a portagli dei libri, ti dispiace dire a mamma e papà, se chiedono di me, che sto dormendo? Digli che non sto tanto bene, anche se dubito che si interessino.>>
Mise dei vestiti nello zaino e dei soldi che ci aveva lasciato la zia, erano molti e forse era tempo che li teneva da parte.
<< Come vuoi >> Bisbigliai anticipando la risposta che avrei dato. Nadia si mise lo zaino in spalla e baciò il ragazzino sulla nuca.
<< Sappi che ti voglio tanto bene e che non è colpa tua. >> disse lei con gli occhi nuovamente lucidi. Si allontanò velocemente ed andò verso la finestra, Muffin si alzò di colpo e le corse incontro.
L’altro me si voltò verso di loro. Lo sapevo, io l’avevo capito ed una parte di me la odiava per quello, per essersene andata lasciandomi da solo.
<< Lo capirai quando sarai più grande…siamo capitati in una famiglia che non ci vuole e che non sa badare a noi, però prometto che tornerò a prenderti. >> si sforzò di sorridere uscendo dalla finestra.
<< Avrò tutta la camera per me, grandioso! >> esclamò lo stupido ragazzino sorridendo felice. Come potevo essere così sciocco? Nadia si era sempre presa cura di me, mi aveva protetto da tutte quelle punizioni che mi sarei dovuto prendere, eppure non sono mai riuscito ad apprezzarla a pieno. Solo ora, solo dopo anni dalla sua scomparsa, sono riuscito a capire l’importanza che aveva nella mia vita.

Questa volta, invece, di vedere tutto sfocato vidi le cose presenti nella stanza muoversi rapidamente, vidi il cambiamento della camera da “mia e di Nadia” a solo “mia”. Muffin cresceva, io che crescevo, mamma e papà sempre più distaccati da me, il loro divorzio, mamma e le sue giornate intere a lavoro e io solo con Muffin a casa.
Non avevo mai sentito la mancanza di Nadia, fino a quel momento. Sentivo un vuoto prendere sempre più posto dentro di me, la solitudine… il paesaggio cambiò per l’ennesima volta; non capivo, cosa c’era ancora da vedere. Dopo quel giorno io non avevo più rivisto Nadia.
Ero seduto in macchina, dietro, con Muffin in grembo, mamma guidava, avevo sedici anni e quello sembrava un ricordo molto recente.
Quella scena era diversa dalle altre, era come se la stessi vivendo in quell’ esatto momento. Ma io ero seduto dietro, accanto all’altro me.
Il telefono di mia madre squillò, dentro di me si scatenò una sorte di allarme. Qualcosa non andava per il verso giusto. Mia madre mise il vivavoce, tanto che anche io sentii la chiamata, non sapendo dove mettere il telefono appoggiò sul sedile al suo fianco che era libero.
<< Buon pomeriggio, parlo con la signora Hills?>> una voce di un uomo fece sobbalzare mamma.
<< Si. Chi parla? >> domandò lei.
<< Salve, sono il dottore Jonas, lavoro vicino all’ospedale San Josè. Chiamo dall’obitorio. Sono giorni che proviamo a rintracciarla. Abbiamo qui con noi il corpo di una giovane donna sui venti, massimo venticinque anni. Dai documenti che abbiamo temiamo che sia sua figl…-
Non finì neanche la frase che mia madre lasciò andare il volante per prendere il telefono in mano.
<< Mamma! >> urlai contemporaneamente all’altro me. Muffin si divincolò piagnucolando, sentiva il pericolo.
Mia madre afferrò di nuovo il volante ma sbandò; cercò di non tamponare la l’auto davanti, così durante la sbandata, frenò di colpo. Fu la mossa più stupida che potesse fare.
L’auto si ribaltò, vidi la mia faccia spaventata e rigata dalle lacrime, mentre abbracciavo forte Muffin, facendogli da scudo.
Ci furono diversi colpi mentre l’auto continuava a rotolare e accartocciarsi sull’erba fino ad arrivare a sbattere contro un albero. E poi solo il buio.

Ero in piedi nel buio e accanto a me c’era una ragazza. Non vedevo che lei, ma non mi importava più di tanto di ciò che c’era intorno a noi. Guardavo solo lei.
Aveva i capelli scuri e la pelle ambrata uguale alla mia. Una luce irreale la illuminava.
Lei percepì il peso del mio sguardo tanto che alzò il suo e mi sorrise dolcemente.
Il mio cuore si riempii di gioia, era cresciuta di tanto, ma sul suo viso c’era ancora la solita espressione: felice come se qualcosa di brutto finalmente fosse passato.

<< Nadia, mi sei mancata…>> bisbigliai avvicinandomi. Lei si alzò in piedi e vidi quanto poco più alta fosse di me. << Anche tu. Ti avevo fatto una promessa, non sono riuscita a mantenerla, ma non importa ora il tuo viaggio nel passato nei vecchi ricordi si è concluso e io sono felice che tu sia qui, con me. >>

Mi prese per mano e in quel momento tutto  mi fu finalmente chiaro.