Micaela Fabaro – Il viaggio

Davanti a me vedo lui, il mare. Luccica, sembra prendere vita. Ora si infrange sulla spiaggia vicino ai miei stivali, formando una schiuma biancastra. Vedo anche il sole che brilla alto nel cielo e mi sorprende che non abbia ancora fatto sciogliere la sabbia con il suo calore cocente. In più la pesante casacca nera che indosso non mi aiuta. Sembra essere di cuoio, mi è familiare. Osservo i ghirigori dorati delle maniche e quelli lungo i bottoni sul davanti.

Respiro profondamente l’aria salmastra. C’è qualcosa di sinistro in quest’isola deserta. E’ troppo deserta. Troppo tranquilla. O forse è solo il sole che mi sta facendo delirare. Guardo più in là e vedo la mia nave, ormeggiata poco lontano dalla costa. Le onde accarezzano dolcemente i suoi fianchi, mormorandole i segreti più reconditi nascosti nelle profondità dell’oceano.

“Capitano, tre dei nostri non si sono presentati all’appello.”

Mi volto e incrocio lo sguardo del nostro quartiermastro. Mi sta osservando con la fronte corrugata: posso quasi riuscire a vedere il sale marino incrostato tra le rughe del suo viso. Più in là scorgo la mia ciurma mentre sistema il bottino in alcune casse di legno.

“Avete incontrato ostilità nella giungla?” gli domando cercando di non far trapelare la preoccupazione.

“Nossignore capitano. Anzi, sembrava fin troppo facile…” si gira per dare uno sguardo inquieto alla fitta vegetazione dietro di noi, mentre il sole fa luccicare il suo orecchino d’oro. All’improvviso sento un boato provenire dalla foresta e un lampo di luce mi accieca…

 

Mi sveglio di soprassalto con la fronte imperlata di sudore. La stanza è buia, ma dalle tende filtra un raggio di sole.

Cerco di sistemarmi i lunghi capelli castani arruffati. Perché non mi ricordo mai di farmi fare una treccia prima di dormire? Sicuramente Delma si lamenterà di nuovo mentre mi spazzolerà.

Mi alzo dal letto e il contatto dei piedi nudi col pavimento in marmo mi fa rabbrividire.  Quando scosto le pesanti tende, la luce mattutina inonda la mia camera regalandomi il suo tepore. Mi strofino gli occhi e guardo fuori dalla finestra: vedo l’enorme giardino verdeggiante, le mura che circondano il nostro palazzo e più in là il sentiero che scende fino a valle, dove sorgono gli agglomerati di case e botteghe dei vari artigiani di Bergàntes.

Bergàntes non è un paese piccolo, ma nemmeno una grande città. Si trova in una baia e alle spalle è circondato da un fitto bosco. È abbastanza grande da ospitare il porto, qualche taverna e le abitazioni di legno della gente. Il nostro palazzo è l’unico della zona: intorno ad esso ci sono alcune sedi amministrative fondate dalla nostra famiglia, il minimo indispensabile per stabilire una sorta di governo e per garantire giustizia ai cittadini. Per questo i Windrose sono rispettati da tutti.

Ripenso a poco fa: mi capita spesso di sognare di diventare il capitano di un vascello pirata. E’ il mio più grande desiderio proibito. Per me essere un pirata significa essere liberi, viaggiare per mare ed esplorare luoghi ancora sconosciuti, vivere fantastiche avventure alla continua ricerca di tesori perduti e non dover dar retta a nessuno. Certo, i pirati sono dei criminali, ma non hanno una continua sete di sangue… piuttosto di oro. Comunque mio padre odia a morte i pirati e ogni genere di fuorilegge, perciò è impossibile che io possa anche solo pensare di darmi alla pirateria.

Apro la finestra e mi siedo sul davanzale tiepido. Un’aria frizzantina invade la mia stanza e io mi sporgo per respirarla a pieni polmoni. L’alba è ormai passata e il cielo è di un azzurro intenso, limpido, senza nuvole. Sento il mormorio della città, il cigolio dei carri e il rumore regolare del martello di un fabbro.

Da qui si intravede Piazza Vecchia, quella che ogni sabato è affollata per il Gran Mercato. Al Mercato qualsiasi commerciante, indipendentemente dalla sua provenienza, cultura o religione, ha la possibilità di far conoscere a tutti la sua merce migliore. Ci sarà anche oggi e io ho intenzione di andarci, anche se mio padre non sarà molto d’accordo. Dice che nella calca i criminali si nascondono più facilmente. Io però sto sempre attenta a non portarmi dietro oggetti di valore o gioielli preziosi. Di solito non porto nemmeno soldi, se non qualche moneta d’argento nascosta tra le balze del vestito. Almeno tutti quegli stupidi abiti pomposi servono a qualcosa.

Il mio sguardo passa alle imbarcazioni attraccate al porto. Trovo che siano davvero splendide, indipendentemente dalla tipologia. Mi soffermo ad ammirare i dettagli dello scafo di ognuna, poi le vele più semplici dei pescherecci e dopo ancora quelle ornate delle grandi navi mercantili e dell’unica ammiraglia ormeggiata nella nostra baia.

Mentre conto i cannoni di quest’ultima, sento un gridolino provenire dalle mie spalle.

― Signorina Windrose! Scenda da lì, la prego! E faccia piano che potrebbe scivolare o mettere male un piede o…

― Sta’ tranquilla Delma! Sono solo seduta, non sto facendo nulla di pericoloso ― la interrompo io cercando di rassicurarla. Delma è una delle nostre domestiche, quella a cui sono più affezionata. È bassa e robusta ma pur essendo anziana conserva ancora il suo caratteristico colore di capelli: un rossiccio molto intenso che ricorda l’interno dei papaveri quando sono in piena fioritura. Le ciocche sono raccolte in uno chignon disordinato ma ben stretto sulla nuca. In effetti sembra molto più giovane dell’età che ha. A volte si preoccupa per niente, proprio come ora, e inizia ad agitare freneticamente le mani tozze come per risolvere tutto con qualche strano tipo di incantesimo.

― Avete intenzione di buttarvi dalla finestra forse? Per l’amor del cielo, signorina, scendete da lì! ― risponde ansiosa con i suoi piccoli occhi infossati spalancati.

― D’accordo d’accordo ora scendo, non ti agitare ― dico mentre rimetto i piedi a terra.

Lei tira un sospiro di sollievo, poi si ricompone e assume la sua solita espressione risoluta.

― Comincio a pensare che vi divertiate a farmi spaventare ― si avvicina a me e mi squadra dalla testa ai piedi ― Siete impresentabile! Sono già le sette e mezza e voi siete ancora in camicia da notte. E i vostri capelli… ― dice esasperata prendendo una ciocca della mia lunga chioma castana arruffata. Io trattengo una risatina. A volte potrebbe sembrare severa ma in fondo Delma ha un animo dolce e io le voglio molto bene.

Quand’ero piccola la facevo disperare di continuo tra capelli infangati, dipinti con la vernice di papà o pieni di foglie e scompigliati dal vento. Quando mi arrampicavo sugli alberi si preoccupava sempre troppo, anche più di mio padre. O forse lui non voleva farsi vedere preoccupato, chissà. Mi piace pensarla così. In ogni caso, a me non importava niente di quello che pensava Delma, o papà, o l’insegnante privato dal naso lungo che non sopportavo. Nemmeno le guardie del nostro palazzo con le loro baionette mi incutevano timore. Ricordo che papà minacciava che mi avrebbero tagliato i capelli cortissimi con quelle stesse lame se non fossi scesa dal “dannato albero storto”, come lo chiamava lui. Mi viene da sorridere ripensandoci. Diceva che la figlia di un Governatore non avrebbe mai dovuto comportarsi in quel modo. In risposta io risalivo ancora più su e scendevo solo quando tutti se ne andavano, tanto mio padre si dimenticava sempre di punirmi preso com’era dai vari fogli sparsi sul bancone del suo studio. In generale non ho mai dato peso alle parole della gente, a dire il vero. E va benissimo così.

― Sarà meglio che vi dia una bella sistemata ― afferma Delma decisa. Mi porge un secchio pieno d’acqua e io mi sciacquo la faccia. L’acqua gelida è stranamente piacevole sulla mia pelle e cancella il torpore del sonno.

Mi passa un panno per asciugarmi e inizia a spazzolarmi i capelli. In realtà non mi piace quando qualcuno fa tutto al posto mio. Mi fa sentire inutile e imbranata. E poi Delma non è molto delicata: sembra che ad ogni colpo di spazzola mi stacchi un ciuffo di capelli.

― Non preoccuparti, riesco a pettinarmi da sola ― le dico stringendo i denti.

Delma mi ignora e dà un ultima spazzolata, poi guarda la lunga chioma vaporosa soddisfatta.

― Ecco fatto. Allora, che colore volete indossare oggi? ― si dirige verso il mio armadio e inizia a frugare tra i vestiti.

Mi siedo sul letto osservando la mia stanza. Ho sempre detestato le camere delle mie coetanee: tutte piene di quei mobiletti di bellezza e di sgabelli decorati totalmente inutili. Così ho detto a mio padre che volevo una camera semplice e spaziosa e lui ha accettato, pur pretendendo che i pochi mobili fossero di qualità: un armadio in legno d’acero, un comò, un morbido letto a baldacchino, lenzuola di seta candide e svariati scaffali carichi di romanzi d’avventura. Nel cassetto del comodino c’è un carboncino e il mio preziosissimo quaderno da disegno, che adopero solo quando non c’è nessuno. Non voglio che gli altri vedano i miei disegni, forse perché ho paura che mi giudichino o forse perché ci metto troppa me stessa.

Il tenue sole mattutino che entra dalla grande finestra dona un’atmosfera quasi magica a tutta la stanza. Mi fermo a contemplare la luce che illumina la parete verde chiaro e decido che quello sarà il colore di oggi.

― Che ne dite di un bel rosso fiammante? ― Delma mi propone un vestito color porpora agghindato con delle orribili piume rossastre e marroni. Dev’essere quello che mi ha regalato zio Rourke per il mio diciassettesimo compleanno. Non sopporto Rourke: quando viene a farci visita inizia a vantarsi delle sue imprese con una voce talmente mielosa che mi viene voglia di vomitargli sugli stivali per poi andarmene via soddisfatta.

― Scusa ma oggi preferisco qualcosa di meno… appariscente ― rispondo indicando le enormi piume rosse. Mi alzo e cerco il mio vestito preferito. Tra i vari tessuti colorati riesco finalmente ad afferrarne uno sul verde chiaro. Quando lo tiro fuori dall’armadio, sulla faccia di Delma appare un’espressione sconsolata.

― Signorina Windrose, non credete che sarebbe opportuno mettere altri vestiti oltre a quella specie di straccio? Non si addice alla vostra regale personalità. ― afferma lei con aria critica squadrando l’abito mentre io ridacchio.

― Ma insomma non è uno straccio! D’accordo è un vestito poco elaborato ma la semplicità è sinonimo di raffinatezza e positività ― rispondo con una volutamente esagerata espressione da saputella. Da dove l’ho tirata fuori ‘sta cosa della semplicità?

Delma mi guarda perplessa ― Se lo dite voi… ― fa spallucce e inizia a riporre ordinatamente i vestiti nel mobile.

Osservo soddisfatta il mio abito: è verde come il colore delle foglie quando si guarda il sole attraverso di esse, in controluce. Ha anche un corpetto bianco panna, stretto con dei lacci di cuoio. Ok, è un vestito abbastanza vecchio e i colori sono un po’ sbiaditi ma c’è qualcosa in lui che dona allegria e che mi fa sentire me stessa.

Tolgo la camicia da notte e infilo l’abito prima che Delma cerchi di aiutarmi. Non voglio essere trattata come la figlia viziata del Governatore della città, eppure le domestiche non fanno altro che continuare a fare tutto al posto mio. Mi fa sentire come se non sapessi badare a me stessa, cosa che invece non è assolutamente vera date le mie “fughe segrete dal palazzo”… ma è meglio che questo mio padre non lo scopra.

Scappare dal palazzo… Dannazione la nave! Me ne sono completamente dimenticata, come ho fatto!? Come ho potuto scordarmi anche solo un istante della soluzione ai miei problemi? Dev’essere quel sogno… E’ davvero diventato talmente ricorrente da offuscarmi il cervello?

No, non è questo il motivo. Saranno sicuramente tutti questi stupidi impegni che non mi fanno più ragionare. Non mi fanno più concentrare su ciò che conta davvero! Questa sera dovrò anche presenziare all’Assemblea Nazionale insieme a mio padre. Dice che devo imparare ad ambientarmi nel clima politico. Dice che prima o poi prenderò il suo posto e dovrò assumermi io la responsabilità del destino di Bergàntes. Dice anche che presto dovrò trovare marito, per questo tra meno di un mese si terrà un ballo qui a palazzo. Parteciperanno svariati nobiluomini provenienti da chissà dove: esattamente la categoria di persone più prive di personalità al mondo. Non che io odi mio padre, vuole solo che sua figlia viva nel migliore dei modi e con dignità. Ma io non sopporterei vivere così. Devo assolutamente terminare i preparativi prima che il ballo mi costringa ad una vita che non voglio. Una vita fatta di obblighi e di responsabilità che mi graveranno sulle spalle fino a schiacciarmi.

Per questo ho deciso di partire, di fuggire. Non sono la classica ragazzina dei libri che scappa di casa e torna dopo due giorni frignando. Ho studiato tutto nel dettaglio: vendendo al Mercato i gioielli costosi e gli abiti pregiati che mi sono stati regalati negli anni, sono riuscita ad accumulare una piccola fortuna. Nessuno si è accorto di niente, sono piena di queste cianfrusaglie.

Con il ricavato ho acquistato una piccola ma resistente nave, grande circa quanto una cannoniera. L’ho chiamata, con molta poca fantasia ma tanta determinazione nel cuore, Liberty. Non è armata, ma è adatta anche ai viaggi più lunghi e al mare in tempesta. E’ qui vicino, in un’insenatura nascosta della baia di Bergàntes. A tenerla sotto controllo c’è Diego, il figlio di un ammiraglio che mio padre conosce. E’ stato proprio Diego a procurarmela. Siamo cresciuti praticamente insieme ed è una delle poche persone di cui mi fido; infatti è l’unico a sapere del mio “piano”, se così si può definire.

Salperò appena avrò terminato di caricare le provviste e i vari rifornimenti sulla Liberty. Non vedo l’ora, finalmente non dovrò più preoccuparmi di niente e nessuno. Dovrò solo aprire le vele e andarmene il più lontano possibile. Chissà, magari mi imbarcherò anche su una nave pirata, nel mare di qualche continente remoto.

Mentre stringo i lacci dell’abito, Delma mi propone l’ultima cosa che avrei voluto sentire in quel momento.

― Non lo mettete il corsetto? Vi sta d’incanto, mette in risalto le vostre curve e il vostro fisico snello.

― No grazie, penso che oggi ne farò a meno ― rispondo educatamente per non dire “piuttosto lo brucio”. Odio infinitamente i corsetti. Ormai tutte le ragazze della mia età indossano questi cosi fastidiosi come se niente fosse! Io cerco sempre di evitali, anche se non sempre posso. Come al solito ci sono protocolli da seguire, doveri e obblighi da rispettare.

Delma mi guarda rassegnata.

― Mi dispiace ma non ci tengo a rimpicciolirmi i polmoni ― dico io in risposta al suo sguardo. Lei si avvicina per stringere maggiormente i lacci del vestito borbottando qualcosa sull’importanza dell’aspetto di una nobildonna, ma non ci faccio molto caso. Sono impegnata a progettare la mia giornata: un bel giretto al Gran Mercato, l’occasione perfetta per acquistare ciò che mi serve. Arriveranno mercanti da tutta la provincia con un’incredibile quantità di merce esotica di ogni tipo. Ho sempre amato gironzolare tra le bancarelle e i bazar, sentire gli aromi delle spezie orientali e conoscere culture diverse. Non si sa mai cosa si può trovare. Ci andrò ad ogni costo, con o senza il consenso di mio padre.

Delma dà un’ultima sistemata all’abito ― Su sbrigatevi. Vostro padre vi sta aspettando per la colazione.

Afferro un nastro rosso dal comodino e mi precipito in corridoio. Mentre scendo di corsa le scale prendo due ciocche ribelli ai lati del viso e le lego dietro alla testa con il nastro, altrimenti mi gironzoleranno in faccia per il resto della giornata. Al solo pensiero di salpare con la mia Liberty, uno smagliante sorriso mi compare sul volto: uno sincero, di quelli impossibili da imprigionare in un disegno.

Arrivo nella sala da pranzo. Mio padre è seduto all’estremità del lungo tavolo d’ebano, di fianco al posto del capotavola. Stranamente è sbarbato e ha i capelli biondi raccolti sulla nuca. Il colore dei miei l’ho preso dalla mamma: papà mi ha sempre raccontato di quanto fosse morbida la sua chioma castana. Mia madre è morta poco dopo la mia nascita, perciò non ho suoi ricordi. Chissà se lei mi avrebbe permesso di vivere la vita che voglio.

Ripenso al mio futuro viaggio alla ricerca di libertà e la mia mente torna a riempirsi solo di pura gioia.

― Buongiorno padre! Avete dormito bene questa notte? ― lo saluto io sedendomi di fronte a lui.

L’entusiasmo mi ha fatto venire fame: spalmo una quantità smisurata di marmellata sul pane, senza degnare di uno sguardo il resto del ben di Dio che c’è sulla tavola. Non sono molto esigente sul cibo, ma la marmellata di more a colazione non deve mai mancare.

Mio padre accenna un sorriso e noto le piccole rughe che gli si formano ai lati degli occhi.

― Buongiorno Jade, sì ho dormito meglio del solito. Ti trovo in ottima forma. Sinceramente non pensavo che saresti stata così entusiasta dell’anticipo del ballo. Ne sono veramente lieto.

Mi blocco al terzo morso. Cos’è questa storia?

― In che senso anticipo del ballo? ― domando io, sapendo già la risposta. Che domanda stupida.

Lui torna serio ― Pensavo che Delma te l’avesse già accennato. Il ballo in tuo onore è stato anticipato di qualche settimana. L’Assemblea Nazionale di questa sera è stata rimandata a causa di un malessere che ha colpito Lord Graylee. Molti gentiluomini e i loro figli che dovevano parteciparvi hanno già affittato un alloggio qui a Bergàntes. Quasi tutti vengono da molto lontano, quindi ho pensato di sfruttare l’occasione per invitarli al ballo prima del tempo. In questo modo la loro permanenza in paese non sarà del tutto inutile e tu potrai già scegliere chi prendere come tuo futuro marito. Sei libera di innamorarti di chiunque, sono tutti molto cordiali ed educati e poi…

― Ma quand’è questo ballo? ― sbotto io interrompendolo. Lui mi guarda un po’ perplesso. Poi abbassa lo sguardo tamponandosi gli angoli della bocca con un panno di seta candida, evidentemente irritato dal mio tono di voce brusco.

― Si terrà questa sera stessa al posto dell’Assemblea, mi sembrava ovvio ― risponde come se fosse la cosa più scontata del mondo.

Io guardo la mia fetta di pane e marmellata. Per un attimo mi si chiude lo stomaco e sento le lacrime spingere per sgorgare fuori dagli occhi. Ripenso al vecchio metodo che adottavo da piccola per non piangere davanti agli altri quando mi deludevano: inspiro profondamente e conto fino a cinque. Poi espiro, immaginando di buttare fuori insieme all’aria anche il male che le parole appena sentite mi hanno provocato. Torno lucida e mi tranquillizzo. La soluzione, tutto sommato, è abbastanza semplice: fuggire questo pomeriggio stesso.

― D’accordo. Perdonatemi se vi ho risposto in quel modo, non avevo capito. Comunque volevo chiedervi il permesso di andare al mercato quest’oggi. Ho sentito dire che è arrivato un nuovo mercante dall’Oriente. Vende abiti ricamati esclusivamente con fili d’oro e ornati da centinaia di pietre preziose colorate. Alcuni invece sono decorati solo con diamanti bianchissimi. Insomma, c’è molta scelta… Potrei trovare qualcosa di adatto per stasera ― rispondo fingendomi eccitata per il ballo. Ovviamente ho inventato tutto di sana pianta, mercante compreso.

Mi risponde in modo secco ma educato allo stesso tempo, come ha sempre saputo fare ― No Jade. E’ importante che tu ti prepari a partire da questa mattina, subito dopo colazione. Delma ti farà un bagno caldo, poi acconcerà i tuoi capelli a dovere e sceglierete insieme il trucco che più ti si addice. Non esagerare però, mi raccomando. La volgarità non porta a nulla di buono. Inoltre, riguardo all’abito, ci ho già pensato io. L’ho fatto portare da Mary in camera tua. Ti piacerà molto vedrai, non è pomposo né pacchiano. So che quel tipo di vestiti non ti aggrada.

Lo ringrazio e finisco di mangiare velocemente.

― Vado a vedere l’abito allora ― mi sforzo di sorridere ― A dopo padre ― dico dirigendomi verso l’uscita della sala da pranzo.

― Saranno tutti estremamente felici di conoscerti questa sera. Ho invitato solo persone a modo e con la testa sulle spalle. Ti divertirai un mondo, non preoccuparti ― mi risponde sfoderando un ampio e sincero sorriso.

Mi volto verso di lui e fisso lo sguardo per qualche secondo nei suoi occhi azzurri, così diversi dai miei color nocciola ― Ma certo padre, vi ringrazio.

Non capisce, ma non è colpa sua. E’ così è basta. La vita è fatta di regole, no? Se non ti vanno bene si trasforma tutto in una gabbia. Ok, vorrà dire che segherò le sbarre.

Salgo le scale per tornare in camera mia. Noto Mary che sta spolverando il busto di mio nonno, passando il piumino in ogni fessura e più volte nello stesso punto: si vede proprio che deve arrivare gente.

― Signorina Windrose, ho lasciato il vestito nuovo sul vostro letto. E’ meraviglioso, questa sera sarete splendida! ― mi dice Mary mentre continuo a salire.

― Perfetto Mary grazie ― rispondo correndo in camera mia.

Chiudo la porta a chiave e inizio a riempire una piccola sacca con le ultime cose da caricare sulla Liberty, mettendoci dentro anche l’album da disegno. Senza degnare l’abito di uno sguardo, indosso il mio vecchio mantello marroncino e nascondo i soldi in una tasca che avevo cucito al suo interno tempo fa.

E’ tutto pronto, me compresa. Purtroppo non ho più visto Delma, ma non posso rischiare che mi vedano uscire dal palazzo. Per questo mi calerò dalla finestra, come ho già fatto molte volte.

Do un ultimo sguardo alla mia camera. Non c’è tempo per gli addii, né per la nostalgia che un po’ già mi attanaglia il cuore. C’è spazio solo per la determinazione.

Salgo sul davanzale e, dopo aver controllato che non ci siano guardie nei dintorni, tasto con il piede il muro esterno cercando la solita fessura in cui appoggiarmi. Punto il piede e inizio a scendere aggrappandomi con le mani ai mattoni consumati.

Nel frattempo, penso a cosa acquistare al Mercato, optando principalmente per altra carne e pesce essiccati. Non ci sarà molto da scegliere per i pasti durante il viaggio, ma poco importa. L’unico obiettivo è allontanarmi il più possibile da qui. Me lo ripeto di continuo, lo so, ma è l’unica cosa che non mi fa pensare ai pericoli del mare e a quelli che mi aspettano quando sarò lontana. Spero che dove approderò non occorra essere violenti, ma per sicurezza ho comunque portato con me due spade corte sgraffignate dall’armeria di mio padre. Lui ha talmente tanta roba là dentro che non si è nemmeno accorto della mancanza. Passando vicino ad una finestra lo sento suonare il pianoforte. E’ strano pensare che probabilmente non lo rivedrò più. Magari tornerò a trovarlo tra qualche anno, quando la mia vita avrà preso la piega che voglio io.

Appoggio finalmente i piedi sul prato, controllo di nuovo che nessuno mi veda e corro verso l’albero su cui amavo arrampicarmi da bambina, vicino alle mura che dividono noi dal resto di Bergàntes. Anche lui un po’ mi mancherà.

A metà salita, però, mi accorgo che da dietro l’angolo del palazzo è appena sbucato Carl, una delle nostre guardie: cammina deciso in questa direzione.

Per un attimo mi faccio prendere dal panico, ma capisco subito che è troppo lontano per avermi già vista. Fortunatamente il mantello è di un marrone abbastanza simile al tronco, perciò non attira troppo l’attenzione. Tiro su il cappuccio e mi affretto a salire per rifugiarmi tra i rami della fitta chioma, sperando che le foglie riescano a nascondermi.

Mentre il cuore mi martella nel petto osservo Carl che passa a qualche metro dall’albero, con il tipico passo spedito di chi è sovrappensiero. Aspetto che giri l’altro angolo del palazzo e controllo l’ennesima volta il giardino. Via libera.

Percorro qualche ramo e salgo su quello del primo albero fuori dalle mura. Scendo e mi ritrovo accanto ad un sentiero, solitamente poco trafficato, che in pochi minuti mi porterà all’imboccatura del viale lungo cui si snodano le prime bancarelle del Mercato.

Mi sforzo di fermarmi solo ed esclusivamente ai banchi che vendono cibo essiccato e qualche spezia, cercando di ignorare i profumi esotici degli altri tendoni e la confusione generale.

Sembra esserci più gente del solito. Anche i mercanti sembrano urlare più del solito. Meglio così: confondendomi tra la folla ho meno possibilità di essere riconosciuta e di subire veri e propri interrogatori dai curiosi. Quando mi è capitato, in passato, avrei solo voluto rispondere “Sono una persona qualunque e piace anche a me girovagare per il Mercato, magari senza scorta o dame di compagnia. E’ tanto strano?”.

I miei pensieri vengono interrotti dall’accattivante invito di uno dei tanti commercianti.

― Signorina voi mi sembrate una donna veramente colta e raffinata. Potrebbe interessarvi del materiale per lo studio? Sapete, abbiamo quaderni e svariati libri di… ― un uomo con gli occhialini si rivolge a lui domandandogli il prezzo di un taccuino. E che taccuino! Sembra avere la copertina in morbida pelle, o forse è seta tinta. Cerco di farmi strada tra la calca che si è appena formata di fronte alla bancarella per vedere meglio.

― Che ne dite signore? ― chiede il mercante sfoderando un ampio sorriso al tizio con gli occhiali, che però si allontana senza dire nulla.

― Lo prendo io, ecco a voi ― dico tendendo la mano carica di monetine al commerciante dalla pelle olivastra. Meno male che la maggior parte di loro non possono riconoscermi, non essendo originari di Bergàntes.

― Che Ajkhar vi benedica, gentile signorina! ― fa lui con un leggero accento straniero.

Lo saluto augurandogli lo stesso, pur senza sapere a che divinità si riferisca, e continuo il giro immaginando la faccia di Diego quando gli regalerò il taccuino. E’ semplice ma raffinato, proprio come quelli che usa lui durante i viaggi col padre. Un piccolissimo dono per ringraziarlo di tutto, specialmente per aver mantenuto segreta la faccenda.

Quando la sacca si riempie completamente, mi dirigo verso il “nascondiglio” della Liberty. Diego sta sistemando delle casse sopra, forse i viveri che mi ero già procurata in precedenza. Quando mi vede è confuso, così gli spiego il cambio di programma in seguito all’anticipo del ballo.

― Accidenti ― commenta sintetico lui passandosi una mano tra i capelli corvini.

― Già, devo sbrigarmi prima che mio padre mandi le guardie a cercarmi. Tieni qui ― dico piazzandogli il morbido taccuino tra le mani ― E’ solo un pensierino, e anche poco originale. A dire il vero non sapevo cos’altro potesse interessarti.

Lui si mette a ridere e mi abbraccia, stritolandomi volutamente come quando eravamo piccoli e lo faceva apposta per darmi fastidio.

― Almeno sei riuscita a trovare qualcosa di utile! ― scherza lui ― Sei sicura di volertene andare, sì?

― Che domanda inutile caro Diego, quasi quanto te ― rispondo ricambiando l’abbraccio.

― Sempre risposte scontate, mi raccomando! ― dice battendomi una mano sulla scapola.

― Vado a sistemare le ultime cose che ho comprato ― rispondo staccandomi da lui e salendo sul ponte della Liberty.

Sto davvero per partire, incredibile. Sarò finalmente libera. Ma più penso alla nuova vita che mi aspetta, più la domanda di Diego riecheggia fastidiosa nella mia testa: “Sei sicura di volertene andare?”.

Ammiro l’oceano, così placidamente calmo questo pomeriggio: i riflessi del sole si fanno via via più aranciati ogni minuto che passa, flebili lingue di fuoco sull’infinita distesa blu. Il mormorio delle onde mi trasmette un magnifico senso di pace, come sempre.

Mi giro ad osservare il paese, le casette di ogni sorta di legno, il porto e le navi, il palazzo color avorio a cui presto dirò addio. Il canto allegro dei gabbiani si mischia a quello del mare. So che quel blu sarà sempre con me per darmi coraggio, ovunque mi trovi.

Allora perché adesso mi sento così triste? Ho atteso a lungo questo momento. Mi mancano già le mie abitudini, Delma, papà, Diego? No, è più… un senso di colpa? So che i problemi nella vita vanno affrontati, ma non è questo il caso. O forse sì? Forse fuggire da loro non è una gran soluzione, anche se sicuramente è la via più semplice. Forse c’è un modo per affrontarli, posso trovare un compromesso con mio padre. Forse, ma come faccio!? Sembra che tutto mi stia crollando addosso! Perché penso a ‘ste cose ora che è tutto pronto? Desidero tanto andarmene, ma in fondo so che non è giusto, e soprattutto non è quello che voglio davvero. Non sono così. Scappare significa arrendersi di fronte alle difficoltà. E se ne incontrerò di nuove una volta partita che farò, fuggirò di nuovo senza una meta?

Osservo confusa la sacca che mi sono portata da casa. Posso ancora rimediare, posso ricominciare da zero, parlerò con mio padre e farò valere le mie ragioni, non è tardi. Non voglio mollare così.

― Ti sei leggermente incantata su quel sacco, sai? E’ un po’ inquietante… ― mi dice Diego avvicinandosi ― Jade? Ehi, tutto bene?

― Sì scusa, penso di essere mentalmente instabile.

Lui accenna una risatina e scuote la testa ― Grazie dell’informazione che già conoscevo ― poi torna serio ― Posso dirti una cosa?

― Certo ― lo guardo incuriosita.

― Non sei il tipo da queste cose, e lo sappiamo entrambi. Secondo me il tuo vero problema è che hai ingigantito i tuoi vari problemi! Sì ok scusa il gioco di parole inutile, ma voglio solo dirti che la situazione non è così grave. Ci sono persone che sono messe molto peggio di te, credimi. Poi decidi tu ovviamente, è solo un parere personale.

― No Diego, non è solo un parere personale ― rispondo volgendo lo sguardo al mio palazzo, a papà, alla vita che ho il diritto di poter cambiare, di poter affrontare senza dover scappare ― è solo la realtà, la pura e semplice verità.